Donne che hanno Combattuto la Mafia: le loro Storie
Scopri ora le nostre storie dedicate ad alcune delle donne che hanno deciso di ribellarsi alle mafie.
A cambiare la storia - o a fare la differenza nelle piccole o grandi scelte - sono spesso le donne, che – con la loro tenacia e determinazione – riescono a modificare o rivoluzionare ciò che sembrava immutabile.
La vita delle donne in terra di mafia, dove una società patriarcale le ha sempre considerate come un’appendice dell’uomo e senza una vera identità, è tutt’altro che facile. E se essere donna nel nostro Paese non è affatto semplice, a causa degli squilibri e delle inuguaglianze di genere, vivere e rivendicare i propri diritti nei territori in cui vigilano e regnano le mafie è un’impresa nettamente più ardua.
Nelle società patriarcali nelle zone dell’Italia controllate dai poteri mafiosi - dove i riti, le credenze e il comune sentire identificano la donna come una figura di secondo piano, assoggettata e dipendente dall’uomo e privata dell’autodeterminazione - la rivendicazione dei propri diritti è – da sempre – enormemente più complessa.
Non a caso, la mafia generalmente esclude le donne dall’organizzazione e da una loro partecipazione diretta, le tiene lontane da qualsiasi decisione e dalla condivisione di qualsiasi segreto, le controlla in tutti gli ambiti della vita quotidiana impedendo loro di realizzarsi. Allo stesso tempo, però, le associazioni criminali si servono delle donne per poter riconfermare, in ambito familiare e sociale, il ruolo primario e centrale dell’uomo.
Essere una degna madre, figlia e moglie di un mafioso è il compito principale delle donne che confermano così l’autorevolezza dei propri uomini all’interno delle società mafiose. Quasi sempre i matrimoni fra i vari componenti del clan sono combinati per ottenere un rafforzamento fra le famiglie affiliate. Le ragazze - fin da piccole - vengono educate all’obbedienza e al rispetto del futuro marito.
Un altro compito delegato alle donne è l’educazione dei figli, che avviene tramandando le regole mafiose di generazione in generazione: concetti basati sulla vendetta, che passano da un figlio all’altro proprio grazie all’influenza materna. In altre parole, sono le responsabili dei modelli culturali mafiosi.
Tuttavia, anche in questo ambito ci sono delle eccezioni, che prendono il nome di eroine: molte donne hanno fatto la differenza ribellandosi con forza agli schemi mafiosi.
La ribellione di una sola donna all’interno di queste organizzazioni criminali è un atto rivoluzionario di coraggio e determinazione, perché – sebbene non abbia potere decisionale diretto – ha la facoltà di dirottare il cammino del proprio figlio verso un modello culturale diverso da quello imposto. In breve: condurlo alla società civile.
Vediamo allora le storie di alcune di queste donne, che hanno cambiato il proprio destino e sfidato i poteri mafiosi.
Lea Garofalo
Quando viene uccisa dalla ‘ndrangheta ha solo 35 anni. Nel corso della sua breve vita desidera costantemente allontanarsi dall’ambiente mafioso; sogna di diventare avvocato, ma il suo destino le ha riservato un altro epilogo.
Nata a Petilia Policastero (Crotone) in una famiglia che ha rapporti con la ‘ndrangheta, si innamora giovanissima di Carlo Cosco, anche lui appartenente ad una famiglia della criminalità locale. I due ragazzi decidono di allontanarsi dalla Calabria per andare a vivere a Milano. Ben presto però Carlo inizia a intrattenere rapporti con esponenti mafiosi calabresi trasferitisi al nord prima di lui e, nel giro di poco tempo, diventa un personaggio di spicco della ‘ndrangheta di Milano.
Intanto, dalla loro unione, nasce Denise. Dopo aver tentato più volte, e inutilmente, a far cambiare vita al suo compagno, Lea decide di dare una svolta alla sua esistenza, anche per tutelare la sua piccola. Dopo l’arresto del fratello, Floriano Garofalo, nel 1996 e quello di Carlo Cosco, avvenuto nello stesso anno per traffico di droga, Lea lascia il marito per allontanarsi definitivamente dall’ambiente mafioso.
Nel 2002 diventa testimone di giustizia e per gli inquirenti, grazie alle sue rivelazioni, si aprono squarci di luce sulla faida interna fra la famiglia Garofalo e quella Cosco. Grazie a lei è finalmente possibile far luce su svariati omicidi avvenuti a Milano alla fine degli anni Novanta.
Entrata nel programma di protezione, viene trasferita a Campobasso. Dopo alterne vicende che vedono Lea prima esclusa e poi di nuovo inclusa nel programma di protezione, nel 2009, stanca di peregrinare da una residenza all’altra e di una vita vissuta in solitudine insieme alla figlia, vi rinuncia definitivamente e torna in Calabria. Nel frattempo, intrattiene rapporti col suo ex compagno Carlo Cosco, che - uscito ormai dal carcere - sembra diventato un padre attento alle esigenze della figlia. Fingendo di voler aiutare entrambe, convince Lea a portare Denise a Milano. Una volta arrivate, Carlo esprime il desiderio di portare Denise dagli zii, la ragazza accetta, ma Lea si rifiuta. Madre e figlia si danno appuntamento alla stazione centrale di Milano per il rientro a casa, ma a quell’appuntamento Lea non arriverà mai.
A fare la denuncia della sua scomparsa sarà proprio Carlo Cosco.
Dopo lunghe indagini, gli inquirenti approdano alla verità: una volta rimasta sola Lea viene rapita da Carlo e da due suoi fratelli, per poi essere torturata, uccisa e data alle fiamme fino alla completa distruzione del corpo. Solo attraverso la confessione di un mafioso, a San Fruttuoso, sarà ritrovato quel che resta di lei: qualche frammento di ossa e una collana. Alla fine del percorso giudiziario, nel 2014, tutti i colpevoli vengono condannati alla pena dell’ergastolo. Oggi Denise vive e studia in una località segreta. Ha disconosciuto il padre e porta alta la memoria della madre.
Lea Garofalo si è dissociata dal regime mafioso sognando una vita diversa per lei e per sua figlia. Un sogno che le è costato la vita, ma che non è stato vano: Denise è stata sottratta per sempre all’abbraccio mortale della mafia.
Rita Atria
Una giovanissima ragazza, esile, timida, ma determinata a rompere il legame con la famiglia mafiosa da cui proviene. A 18 anni incontra Paolo Borsellino, il magistrato a cui viene affidata dopo essere entrata nel programma di protezione. Da quell’incontro nasce un rapporto affettuoso: lui la chiama “Rituzza” a “picciridda”. I loro destini sono intrecciati: entrambi uccisi dalla mafia, uno direttamente, l’altra indirettamente.
Rita nasce a Partanna, contrada Camarro, in provincia di Trapani. Suo padre Vito fa il pastore ma lei, fin da piccola, in casa, sente fare strani discorsi. Vito infatti è un uomo di Cosa Nostra, un mafioso vecchi stampo che non vuole sporcarsi le mani con la droga, ostacolando per questo l’ascesa dei Corleonesi. Si scatena così, nel Belice, una guerra fra bande rivali e nel 1985 Vito Atria viene trovato ammazzato nella sua vigna. A quel punto, le redini della famiglia passano al figlio Nicolò, che nel 1991 viene ucciso nella pizzeria di sua proprietà. È in questo momento che succede qualcosa di totalmente inaspettato e mai successo prima: la moglie di Nicolò, Piera, appena ventiquattrenne, invece di rassegnarsi a un’esistenza monastica, come tutte le altre vedove di mafiosi, e a vivere con i sussidi di Cosa Nostra, prende la sua bambina di soli tre anni e si dirige alla caserma dei carabinieri. Cerca protezione e la via per una nuova vita. Fa il nome degli assassini del suocero e del marito, rivelando informazioni molto preziose per gli inquirenti.
Rita Atria - pur avendo solo 17 anni - capisce che, se vuole dare una svolta alla sua giovane esistenza, deve seguire quella strada. Prende esempio dalla cognata e si mette a disposizione degli investigatori. Non ha mai commesso alcun reato e - come Piera - è solo una testimone di giustizia. Dice tutto ciò che sa, anche se questo le costa rinunciare al suo nome, alla sua identità, a tutto ciò che le è appartenuto fino a quel momento. Rita viene addirittura disconosciuta dalla madre, disconosciuta come figlia per aver tradito. L’incontro con Paolo Borsellino le riempie il vuoto lasciato dalla famiglia, fra i due nasce un profondo affetto.
Le due testimoni vengono trasferite a Roma, dove Rita riesce a continuare gli studi. Il giorno dell’esame quattro poliziotti la scortano in Sicilia. Nessuno lì sa chi è e perché è scortata dai militari. I professori della commissione esaminatrice lo capiranno leggendo il suo tema: su quelle pagine emerge tutto il dolore e la rabbia per l’uccisione del giudice Falcone, ma anche la volontà di lottare e la speranza di poter un giorno sconfiggere la mafia. Dopo qualche tempo, grazie alle sue rivelazioni e a quelle di sua cognata, vengono arrestati 31 mafiosi appartenenti alle cosche trapanesi. Fra loro anche nomi di spicco, come Vincenzo Culicchia, deputato democristiano e sindaco di Partanna, a cui viene contestato il reato di associazione mafiosa e l’uccisone del vicesindaco Stefano Nastasi.
La torre d’avorio in cui hanno vissuto fino ad allora i boss delle cosche trapanesi inizia a vacillare sotto i colpi inferti da due giovanissime donne. Con determinazione Rita e Piera hanno deciso di ribellarsi ad un destino che le avrebbe volute silenti e assoggettate alla violenza di un “codice d’onore” che di onorevole non ha nulla.
La loro vita cambia totalmente, ma nessuna delle due ha dei ripensamenti.
Il 19 luglio 1992 per Rita si chiude per sempre la possibilità di un futuro migliore: con l’uccisione di Paolo Borsellino viene frantumata ogni sua speranza di riscatto. La giovane, privata della rassicurante presenza del giudice ormai ritenuto un famigliare e sentendosi perduta, si getta nel vuoto dal settimo piano del palazzo dove abita. Scrive qualche parola per motivare il suo gesto: "Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto che ha lasciato nella mia vita. [...] Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta".
Al suo funerale non partecipa né la madre, né il paese. Dopo qualche mese la madre distruggerà la lapide della figlia appellandola come: “fimmina lingua longa e amica degli sbirri”.
Rita Atria, una piccola grande donna da cui persino la madre ha sentito il bisogno di prendere le distanze: una figura troppo scomoda per la società mafiosa basata sulla violenza, l’omertà e la prevaricazione.
Felicia Impastato
Impossibile concludere il nostro elenco delle donne che hanno combattuto la mafia senza parlare di Felicia Bartolotta Impastato, madre di Giuseppe Impastato, detto Peppino, ucciso dalla mafia nel 1978.
Felicia nasce a Cinisi il 24 maggio 1916. Nel 1947 sposa Luigi Impastato, piccolo allevatore legato alle famiglie mafiose del paese. Subito dopo il matrimonio iniziano i primi litigi: Felicia non vuole in casa gente in odore di mafia e non sopporta il legame che il marito ha stretto con Gaetano Badalamenti, noto boss mafioso. Contrariamente a quanto avviene solitamente nelle famiglie legate alla criminalità organizzata, dove le donne hanno il compito di educare la prole secondo regole fatte di violenza e di vendette, Felicia educa i propri figli, Giuseppe e Giovanni, al rispetto della legalità.
Tutto questo, nel tempo, scava un profondo solco tra il padre Luigi, aggregato alla cupola di Cinisi e Terrasini e il primogenito Giuseppe. Fra i due, dopo furibondi litigi, avviene una rottura insanabile, tanto che il ragazzo è costretto ad andare via da casa. Una volta autonomo e libero, dà vita a un’attività socio-culturale tutta tesa a combattere e ridicolizzare i personaggi mafiosi del suo paese. Fonda il giornalino “L’idea socialista”, partecipa alle attività dei gruppi di Nuova Sinistra e fonda una radio privata autofinanziata “Radio Aut” , dalla quale denuncia le malefatte dei mafiosi che tengono in pugno il suo paese.
Ma Felicia, pur stando sempre dalla parte del figlio, sa che Peppino si è messo contro dei pericolosi criminali e più volte tenta di dissuaderlo dal proseguire in questa sua attività divenuta ogni giorno più pericolosa. Sa che il figlio è nel mirino del boss Badalamenti e vive nella paura che Peppino possa essere ucciso. Ma, pur con tutte le diversità di vedute e le distanze insuperabili che ci sono tra padre e figlio, a fare da scudo di protezione a Peppino è proprio il padre Luigi. Nessuno, infatti, oserà toccare il figlio fino a quando il padre sarà in vita.
Ma Luigi muore in uno strano incidente e - a distanza di qualche tempo - emergono dei seri dubbi sul fatto che si sia trattato di una tragica fatalità. Otto mesi dopo, Peppino Impastato viene trovato morto lungo i binari della ferrovia, saltato in aria con una bomba. Le forze dell’ordine, dopo un'indagine molto superficiale in cui si tralascia di verificare gli indizi più evidenti, asseriscono che si tratta di un atto terroristico finito male e che Peppino è morto mentre cercava di posizionare un ordigno per compiere un attentato.
Ma Felicia, suo fratello Giovanni e tutti gli amici sanno che è stata la mafia ad ammazzare Peppino. Iniziano così ad acquisire prove per dimostrarlo. Al processo Felicia si costituisce parte civile e lo fa da sola per proteggere l’unico figlio che le resta da eventuali ritorsioni mafiose.
Le prove raccolte dalla famiglia ed esibite durante il processo convincono i giudici: si è trattato di un delitto mafioso, ma il primo iter giudiziario si conclude con un’archiviazione: non ci sono abbastanza elementi per individuare i colpevoli.
Felicia - delusa e amareggiata - non ha però nessuna intenzione di mollare. Prosegue la sua battaglia personale contro la criminalità organizzata. Oltre a continuare a cercare prove per incriminare i colpevoli dell’uccisione del figlio, trasforma la sua casa in un museo. Raccoglie fotografie, volantini, articoli di giornali e altri materiali per spiegare, a chiunque volesse entrare, quali fossero i principi che avevano spinto il figlio a intraprendere quella strada. Un percorso che lo aveva portato alla morte, ma che riesce a raccontare - in modo nitido e inequivocalible - quale terribile malattia sia la mafia: un morbo che saccheggia, depreda e toglie la dignità.
Passa il tempo e la notizia dell'esistenza della Casa Museo di Felicia Impastato corre veloce e desta curiosità, suscitando l'attenzione dei media e dei visitatori che iniziano ad arrivare numerosi da ogni parte d'Italia. Il fenomeno suscita stupore soprattutto perché un'iniziativa del genere riesce ad attecchire in una terra completamente colonizzata dai poteri mafiosi. Lei è sempre lì, nonostante le minacce, pronta a raccontare la storia del suo Peppino.
Nel corso della sua esistenza non ha mai abbandonato la speranza di vedere assicurati alla giustizia gli assassini di suo figlio e nel 1996 le rivelazioni di un pentito fanno riaprire il caso. Felicia ha 85 anni, per nulla fiaccata dall’età e tantomeno dalle minacce mafiose, e accetta di testimoniare al processo.
Dopo svariate vicende giudiziarie e l’accertamento di depistaggi avvenuti nel primo processo, nel 2001 i colpevoli vengono finalmente condannati: Vito Palazzolo a 30 anni, Gaetano Badalamenti all’ergastolo.
Felicia muore nel 2004. La sua casa viene intitolata “Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato” e ancora oggi è un vero e proprio punto di riferimento della lotta alla mafia.
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